Ippolito CAFFI 1809-1866
“Ho volato: è storia nota; ma perché e come ho volato, è ancora argomento di dispute; meglio di me questo perché, e questo come, nessuno lo sa; tu me lo chiedi, ed io, gratis te lo rivelo” :
con queste parole Ippolito Caffi inizia il suo racconto, peraltro assai lungo e dettagliato, della sua grande, inedita esperienza: volare su un pallone aerostatico. Il racconto, così com’era nato il primo maggio 1847 sotto forma di lettera indirizzata all’amico trevigiano ma trapiantato a Venezia Antonio Pavan, venne pubblicato dall’artista stesso nel settimanale veneziano “Il Vaglio”, il 12 giugno di quell’anno1. Lo stile è un po’retorico, anche un po’ eccessivamente autocelebrativo, ma considerato che questo è effettivamente il suo stile epistolare, fondamentalmente sincero e nel dipanarsi di pagine e pagine di narrazione, di certo coinvolgente.
Vi si legge tutta l’emozione del pittore, tutto lo stupore che egli prova nel vivere un’esperienza così particolare e insperata; vi si leggono quei colori e quelle sfumature che con tanta empatia riuscì a trascrivere nelle tele che la narrarono: i minuti che passano in un cangiantismo di toni che sfuma dal rosso violaceo, infuocato e caldo, alla delicatezza degli ocra e dei gialli più tenui.
Tra l’aprile e il maggio del 1846 Francesco Arban, uno dei più famosi aeronauti del secolo, fu a Roma, dove si esibì in due ascensioni con il proprio pallone aerostatico: la prima il 14 aprile, con partenza da Villa Borghese, la seconda il 17 maggio, dal Pincio. Grandi furono le aspettative, così come l’entusiasmo alla conclusione dell’impresa4. E’ indubbio che Caffi, se non fisicamente presente tra il pubblico, debba esserne stato a conoscenza ed essersene molto incuriosito.
E ancor più dovette poi essere a conoscenza del fatto che il pittore-fotografo Giacomo Caneva, padovano ma in quel tempo stabilizzato a Roma, il 17 febbraio successivo aveva partecipato ad una ascensione dell’Arban con partenza dalla “gran piazza alle Terme Diocleziane”, ora Piazza della Repubblica ; del resto il Caneva stesso aveva narrato di questa esperienza in una dettagliata lettera ad alcuni amici6 ed è presumibile che se ne vantasse abbondantemente.
Caffi e Caneva si conoscevano da tempo, entrambi erano frequentatori assidui del Caffè Greco in via Condotti, sede, tra l’altro del “Circolo dei pittori fotografi”, sulle cui pareti Ippolito si era esibito con delle vedute delle quali purtroppo solo una ora è leggibile. Talvolta le loro vite si incrociarono anche per altri versi: Caneva tra il 1839 e il 1840 collaborò con Giuseppe Jappelli alla risistemazione di Villa Torlonia, e l’anno dopo, con lo stesso architetto, Caffi lavorò a Padova al Caffè Pedrocchi dove realizzò uno dei suoi più preziosi cicli ad affresco. Se poi giustapponiamo alcune vedute romane di Ippolito con altrettali calotipie di Caneva, un raffronto concreto tra i due appare evidente. Come evidente può apparire una possibile rivalità.
Due mesi dopo quel febbraio Arban, a Roma, stava pianificando un ulteriore, ultimo volo per i
primi giorni di aprile. Come lo stesso Ippolito racconta, “casualmente” si trovò a mangiare nella stessa osteria dove si trovava l’aeronauta e, altrettanto casualmente, egli dice che gli “uscì di bocca ridendo che se avesse acconsentito di farmi volar seco nella sua prossima ascensione, ero disposto a regalarlo…d’un mio quadretto, in cui mi sarei impegnato a dipingere appositamente lo spettacolo ch’egli meditava di offrire ai romani”.
In conclusione, “senza notaro e senza carta bollata, fu stipulato il contratto”.