Giambattista BASSI

Allievo dei paesaggisti Vittorio Martinelli e Francesco Rosaspina all’Accademia di Belle Arti di Bologna, frequentata a partire dall’anno 1800, Bassi si trasferì definitivamente a Roma nel 1810, ottenendo la stima e l’amicizia di numerosi artisti e letterati contemporanei. 

 Il pittore si staccò ben presto dallo stereotipato paesaggismo arcadico per avvicinarsi allo studio dal naturale, inserendosi di diritto tra i maestri più all’avanguardia nella pittura di paese, secondo lo schema del paesaggismo classicista, che prevedeva lo studio dal vero di ogni particolare naturale, seguito dalla ricomposizione in studio per meglio raggiungere l’equilibrio e la compostezza finali. Tra coloro che favorirono il giovane artista romagnolo introducendolo nell’ambiente artistico romano e in quello del collezionismo internazionale di elevatissimo profilo, ricoprirono un ruolo di rilievo Antonio Canova, Vincenzo Camuccini, Pietro Giordani, Massimo D’Azeglio, Bertel Thorvaldsen e Giulio Perticari. Quest’ultimo, in particolare, avrebbe espresso più volte giudizi entusiastici sul “Giornale Arcadico” in merito alla qualità dei paesaggi realizzati da Bassi. Proprio il favore straordinario di cui l’artista godette, in particolare durante il primo ventennio della sua attività romana, spiega la dispersione in Europa e in America di gran parte dei suoi dipinti. Tra questi spiccano, in particolare, la partecipazione all’illustrazione della Quinta Satira di Orazio, su commissione della duchessa di Devonshire, Elisabeth Hervey, nel 1816, e a quella di una raffinatissima edizione dell’Eneide per la stessa nobildonna, nel 1818. Caso a parte dovette poi costituire il quadro con la Caduta delle acque presso Terni (1820), rappresentante le cascate delle Marmore, anch’esso destinato al collezionismo inglese. Le circa sessanta repliche conosciute di quest’ultimo dipinto se testimoniano, da un lato, un successo irripetibile nell’arco della sua carriera, dall’altro, con il loro carattere seriale, evidenziano l’insinuarsi del germe di una lenta, ma inesorabile, involuzione nella produzione di Bassi, che lo porterà a ricercare sempre di  più il facile consenso, piuttosto che a rinnovare una vena creativa ormai in declino. Tale carattere negativo era stato del resto già sottolineato da Massimo d’Azeglio, solitamente generoso nei giudizi sull’amico, definendo le repliche “un po’ fatte con  la stampiglia”. Un altro caso significativo di riproposizione di un medesimo tema è quello costituito dai due dipinti rappresentanti entrambi il Giardino del Lago a Villa Borghese, l’uno del 1817, l’altro del 1828, conservati rispettivamente nella pinacoteca del Sacro Monte della Misericordia di Napoli e in collezione privata, in cui pur mostrando una sostanziale identità compositiva, è possibile osservare le differenze stilistiche che evidenziano lo scarto cronologico di oltre un decennio tra le due opere. Il primo dipinto, in particolare, è improntato di un’aria tersa, a tratti fredda, di marca settecentesca, mentre quasi romantica è l’atmosfera del secondo, impastata dei toni caldi del giallo.

 In realtà la frequentazione di Villa Borghese da parte dell’artista era cominciata già nel 1816 con il piccolo dipinto qui presentato, realizzato un anno prima della citata Veduta del Giardino del Lago di Napoli, e non a caso ad esso accostabile, per un uso ancora settecentesco dell’impaginato spaziale, per nitidezza e asciutta corrispondenza con la realtà osservata e per l’impegno descrittivo nella resa dei particolari. La prassi adottata da Bassi di dipingere dal vero "con moltissimo affetto", come lui stesso scriveva da Roma al maestro Rosaspina, nel 1811, non consente del resto di ipotizzare che possa trattarsi di una veduta immaginaria, non colta dal vero. Il dipinto ritrae un’elegante giovane donna, abbigliata secondo la moda del tempo, intenta alla lettura, seduta all’interno di una stanza con una finestra aperta su uno scorcio di villa Borghese, che potremmo giudicare, per la scelta rappresentativa e per l’adozione di una visione ravvicinata, assolutamente innovativo. Lo sfondo inquadra infatti, più che un paesaggio aperto, una selezione di paesaggio o meglio un “dipinto nel dipinto”: una scena in cui la protagonista è una carrozza trainata da una coppia di cavalli, rappresentata nel momento in cui sta per giungere allo “stazzo” semicircolare, antistante la facciata sud del Casino del Muro Torto o Primo Casino, l’odierna Aranciera di Villa borghese, sede del Museo Carlo Bilotti.    

 

    Ecco che il paesaggio sullo sfondo si trasforma in storia, nella rappresentazione di un momento di vita, che pure non distrae lo spettatore dalla scena in primo piano, così come la giovane donna, intenta alla lettura, non è distratta dal rumore della carrozza. La scena sullo sfondo costituisce un complemento narrativo del dipinto, articolato su di un’unica linea temporale, costituita dal breve lasso di tempo che impiegherà la carrozza ad arrivare al portone del casino, durante il quale la protagonista della scena in primo piano finirà di leggere la pagina aperta del libro, su cui scorre attento lo sguardo seguendo il segno tenuto dalla mano destra. Soltanto al termine della pagina, immaginiamo, la donna alzerà gli occhi fuori della finestra ad osservare chi scenderà dalla carrozza. Nell’inquadratura si intravvede l’angolo sud occidentale dell’edificio, posto alla estrema destra della finestra aperta.

 

La scena quindi non è dedicata al celebre edificio raffigurato in numerose vedute, riprese quasi sempre dal giardino di Villa Medici, realizzate tra la fine del XVIII e la prima metà del XIX secolo, prima fra tutte quella dipinta da J.D. Ingres oggi al Musée Ingres di Montauban. Sulla sinistra è un’alta siepe di lauro che delimita il viale di collegamento tra il Casino e il Portale delle Aquile al Muro Torto, oggi rimontato nel piazzale San Paolo del Brasile, realizzato su progetto di Antonio Asprucci, tra il 1791 e il 1793, demolendo il preesistente portale di Martino Longhi il Vecchio.

 

Oltre la siepe si osserva un bel giardino con al centro una fontana, impreziosita da statue poste su basi lungo il perimetro. Questo è delimitato verso nord-ovest dal muro di costruzione del Giardino del Lago, anch’esso realizzato da Antonio Asprucci, in collaborazione col figlio Mario, a partire dal 1775, con gli archi dell’Acquedotto Felice, che alimentava il bacino d’acqua del giardino, oltre alle fontane e ai giochi d’acqua del Casino del Muro Torto, per questa ragione anche noto come Casino dei Giuochi d’acqua, già a partire dalla metà del XVII secolo.

 

Tra le fitte alberature del Giardino del Lago svetta l’attico del Tempio di Esculapio con le celebri statue di epoca romana rilavorate nella bottega di Vincenzo Pacetti. Oltre il fondo del giardino s’intravede uno dei fienili della villa, tuttora esistente, posto ad una quota inferiore rispetto a quella del piano del Giardino del Lago, lungo l’antico asse stradale di via delle Tre Madonne. Infine, sulla cima della collina, rappresentata in alto a sinistra dello scorcio paesistico, compare un edificio da identificare con buona probabilità nel casino fatto costruire dal principe Stanislao Poniatowski, all’inizio del XIX secolo, su progetto di Giuseppe Valadier, ubicato nell’area dell’attuale Villa Strohl-Fern e distrutto nel corso degli scontri tra i difensori della Repubblica Romana e gli assedianti francesi nel giugno del 1849.

 

Pertanto il giardino venne realizzato probabilmente su progetto di Antonio Asprucci, nella fase conclusiva del suo vasto intervento di riqualificazione del parco, forse nei primi anni del XIX secolo, ormai al servizio del nuovo principe Camillo Borghese. La successiva pianta di Luigi Canina, nuovo architetto della famiglia Borghese, contenuta nel volume “Le Nuove fabbriche di Villa Borghese”, del 1828, con gli ampliamenti e le fabbriche da lui realizzate, dopo le acquisizioni operate da Camillo negli anni Venti del XIX secolo, testimonia un aspetto sostanzialmente immutato del giardino.

 

La fontana centrale di quest’ultimo è inoltre ben riconoscibile in un noto dipinto giovanile di Ippolito Caffi con una Veduta del Casino del Muro Torto a Villa Borghese, datato 1834 (Roma, Museo di Roma), insieme all’altra posta più a ridosso della facciata occidentale del casino, in cui l’area compare in uno stato di abbandono, priva di siepi perimetrali, degli originari parterres e di una qualsivoglia decorazione, ad eccezione delle dette fontane.

 

La stanza con la nobildonna intenta alla lettura e il punto di osservazione dello scorcio Villa Borghese della tela di Bassi,Tornando ad osservare il giardino dipinto da Bassi, sui pilastri del cancello d’accesso compaiono due piccole sfingi in travertino, la cui presenza è anche testimoniata da due celebri vedute del Casino del Muro Torto o Aranciera, pressoché contemporanee al dipinto di Bassi: un acquerello di  C.W. Eckersberg, datato 1813, e l’incisione da esso derivata realizzata da G.B. Cipriani nel 1817, oggi al Museo di Roma.

 

L’esistenza di un giardino sul fronte ovest del Casino del Muro Torto, attraversato longitudinalmente dal cosiddetto “viale di Peri” è testimoniata già nelle note descrizioni di Villa Borghese dei due “guarobba” Jacopo Manilli (1650) e Domenico Montelatici (1700). Nel testo di quest’ultimo, in particolare, viene ricordata nel giardino una vasca ovale, sistemata al termine del ricordato viale dei Peri, nel piazzale antistante il fienile, ma non la presenza di una fontana in posizione centrale, con statue collocate su pilastri a decorarne il perimetro, così come rappresentato nel quadro di Bassi. In una pianta di villa Borghese, risalente alla fine del XVIII secolo, il giardino appare segnato semplicemente da due viali ortogonali.

 

Tuttavia la di poco successiva pianta della villa disegnata da Ch. Percier e P. Fontaine, del 1809, testimoniante gli interventi operati dagli Asprucci nella villa per Marcantonio IV Borghese (1730-1800), mostra chiaramente la presenza nell’area di un giardino formale, scompartito in parterres, con tre fontane circolari poste a distanza regolare lungo l’asse est-ovest, delle quali quella centrale di dimensioni maggiori, e un “cocchio”, cioè un viale pergolato,  il cosiddetto  “cocchio de’ Lustrati” o “cedrati” o “limoncelli”, lungo il lato lungo a ridosso del Giardino del Lago. 

 

Sono ambientati in un edificio appartenente alla villa, oggi non più esistente, distrutto nel corso dei citati eventi bellici del giugno del 1849, gli stessi che causarono gravissimi danneggiamenti al Casino del Muro Torto, di lì a breve ricostruito nelle forme odierne. Le rovine dell’edificio sono infatti riconoscibili, in primissimo piano, nella scena centrale della litografia con “I danni prodotti dai cannoneggiamenti del 1849” al Museo del Risorgimento . L’aspetto e la posizione del casino sono ben rappresentati in due disegni di N.D. Boguet  (Roma, Istituto Nazionale per la Grafica, nn. inv. FN 5621, FN 5957), databili tra il 1783 e il 1790, e in una litografia di Giuseppe Mandolini, datata 1829[ (fig. 4). Compare inoltre nella mappa 153 del Catasto Gregoriano dell’Agro Romano (1819-1822), con la particella catastale 723, definito nel relativo Brogliardo come “Casa ad uso della villa”. La presenza del casino nella medesima ubicazione è testimoniata in precedenza dalle piante di Roma di  G. Maggi (1625) e di G. Vasi (1781), e da una pianta di Villa Borghese del 1776, di autore anonimo, intitolata “Burghesiorum Villae Romanae ichonographie” (Milano, Castello Sforzesco) in cui il casale, segnato con l’iscrizione “Olitoris aedicula”, compare posto al termine di un viale che dal piazzale del Casino del Muro Torto, scendeva verso le Mura Aureliane, attraverso il cosiddetto “Hortus olitorius”, e utilizzato ad evidenza come fondale prospettico. Nel dipinto di Bassi l’artista riprende in parte lo schema già sperimentato nel 1810 in un Ritratto maschile, recentemente apparso sul mercato antiquario, in cui l’effigiato compare in una stanza con la finestra aperta su un fondale paesistico. In quest’opera, realizzata al suo arrivo a Roma, come esplicitamente dichiarato nell’iscrizione, l’artista risente ancora di un’impostazione tradizionale e della giovanile formazione accademica, con il soggetto ritratto frontalmente e sentimentalmente ‘fotografato’ insieme agli oggetti della sua intimità.


 Nel piccolo ritratto di nobildonna, al contrario, la scelta di ritrarre il personaggio di profilo e la quasi totale assenza di oggetti personali o d’arredamento, ad eccezione della sedia e del quadretto con paesaggio appeso alle spalle dell’effigiata, che possano in qualche maniera connotare la funzione dell’ambiente e contribuire al riconoscimento del personaggio, sposta decisamente l’attenzione sul paesaggio del fondale. Il paesaggio e la sua luce, d'altronde, entrano prepotentemente nella stanza attraverso i riflessi sulla vetrata sinistra della finestra, che a loro volta si riversano sulla figura femminile consentendole di emergere dalla penombra dell’ambiente.  Il dipinto si Bassi si distacca decisamente, quindi, dai celebri ritratti, realizzati in quegli anni da artisti stranieri a Roma, con le figure degli effigiati poste alla finestra, come il  Ritratto di Karl Friedrich Schimbel a Napoli di F.L. Catel (1824) (Berlino, Staatliche Museen, Alte Nationalgalerie), o altri dipinti in quegli anni dai pensionnaires dell’Accademia di Francia a Villa Medici, tra cui il Ritratto di uomo che legge alla finestra di F.M. Granet (1825 ca.) (Digione, Musée Magnin) e L'Atelier de Picot à la Villa Médicis di Jean Aluax(1817) (collezione privata), tutti miranti all’ esatta definizione dello status, accanto al sentimento, del personaggio effigiato, mediante la resa esattissima degli strumenti di lavoro e dell’arredamento della stanza.

 Resta, infine, difficile l’identificazione della giovane donna ritratta da Bassi. La presenza di un cartiglio in cirillico sul retro del dipinto, relativo alla licenza di esportazione della tela nel 1967, oltre a provare la sua provenienza dalla Russia, spingerebbe a pensare che si tratti di una nobildonna originaria di questo paese, ospite dei Borghese, nel suo soggiorno romano.

Le vicende storico-biografiche della famiglia Borghese nell’anno di esecuzione del piccolo dipinto, il 1816, con Camillo Borghese e Paolina Bonaparte, ormai prossimi alla separazione, Camillo residente per la maggior parte dell’anno nel suo palazzo fiorentino, Paolina nel suo appartamento nel palazzo Borghese a Ripetta, in procinto di trasferirsi nella nuova residenza a Porta Pia, rendono ancora più ardua la ricerca. Andando a verificare l’effettiva presenza a Roma, nel 1816, di principesse o nobildonne russe, scopriamo che il cerchio si restringe a due soli personaggi. Una è la principessa Gallitzin,  che tuttavia giunge a Roma solo la sera del 23 novembre, con un seguito di quattro carrozze, e per età sembrerebbe difficilmente identificabile con la donna ritratta nel dipinto di Bassi. L’altra è la principessa Alexandrine von Dietrichstein nata contessa Šuvàlova, nel 1775, figlia dei conti Caterina Petrovna e Andrea Šuvàloff, e sposa del principe Franz Joseph von Dietrichstein nel 1797.

Madre e figlia sono a Roma a partire dal 1807, in occasione della conversione  di Alexandrine al cattolicesimo, dove la principessa soggiornò a lungo e dove sarebbe morta nel novembre 1847. Alexandrine era stata eletta Accademica di San Luca nella seduta del 2 luglio 1809, con presidente Vincenzo Camuccini. Fu probabilmente lo stesso Camuccini a proporre la nomina accademica della nobildonna,  per il clamore della sua conversione, amplificato dai ritratti di lei e della madre, a grandezza naturale, che lo stesso pittore aveva appena eseguito. I dipinti originali sono ancora oggi irreperibili, sebbene il ritratto di Alexandrine sembrerebbe trovarsi nelle collezioni del castello di Mikulov in Moravia, ma documentati da due incisioni di Domenico Marchetti. Quella con l’immagine di Alexandrine (fig. 5), che ci consente di osservare come il dipinto di Camuccini fosse stato chiaramente concepito sul modello di quello di Madame Récamier, eseguito da François Gérard del 1805, permette inoltre di accostare la fisionomia della donna a quella del personaggio effigiato da Bassi appena sette anni dopo, rivelando una certa somiglianza nonostante la prima sia ritratta frontalmente e la seconda di profilo.

Anche l’apparente discrepanza tra l’età effettiva di Alexandrine, circa quarant’anni, nel 1816, e quella dimostrata dalla giovane ritratta da Bassi, potrebbe facilmente essere superata con la naturale tendenza a ringiovanire i personaggi effigiati, specie se femminili nella ritrattistica ufficiale. Potrebbe quindi essere stato proprio Camuccini a favorire l’incontro tra l’amico Giovanbattista Bassi e Alexandrine, o forse Bertel Thorvaldsen, che aveva eseguito un busto ritratto dell’affascinante principessa nel 1810